Ieri, negli Stati Uniti, sono usciti i dati relativi alle nuove richieste di sussidi di disoccupazione, una delle rilevazioni più rilevanti per la determinazione dello “stato” dell’economia.
Una settimana fa erano stati pari a 250.000, superiori ai 240.000 indicati dalle previsioni, uno dei motivi che hanno causato il “sell off” della settimana scorsa (prima della rovinosa caduta del mercato giapponese di lunedì, le cui cause, come noto, vanno ricercate in ben altri motivi): in quei momenti a vincere era stato il “bicchiere mezzo vuoto”, che segnalava un aumento delle probabilità dell’arrivo della recessione, dato dovuto, peraltro, anche all’aumento del numero dei disoccupati, balzato dal 4,1% al 4,3% (secondo alcuni un rialzo causato anche dall’arrivo di un uragano in Texas, che ha costretto diverse aziende a “lasciare a casa” i propri dipendenti – un aspetto che la dice lunga sulle tutele dei lavoratori americani…).
Questa settimana, invece, il dato si è attestato a 230.000 nuove richieste, quindi circa il 10% in meno rispetto a una settimana fa.
Una percentuale sufficiente a far tornare il buon umore agli investitori se è vero (come è vero) che ieri Wall Street ha chiuso con rialzi compresi tra l’1,76% (Dow Jones) e il 3,06% (Nasdaq), passando dal 2,30% dello S&P 500, permettendo forti recuperi rispetto al calo dei giorni scorsi.
E’ evidente che sapere quante persone ricorrono ai sussidi statali è un modo, insieme ad altri, per comprendere dove va l’economia, e quindi se il futuro sarà fatto di no landing, soft landing o hard landing (secondo le ultime analisi di JP Morgan le probabilità della recessione, negli USA, sono salite, per l’anno prossimo, dal 25 al 35%). Secondo la FED di Atlanta, il PIL Usa dovrebbe crescere, nel 3° trimestre, del 2,9% su base annua, una percentuale da economia in piena salute e non certo di una che si sta preparando all’arrivo di tempi cupi. Di contro, sembra che i consumi stentino un po’ di più (cosa che potrebbe anche essere ricondotta ai ribassi borsistici che da metà luglio hanno portato ad un incremento piuttosto sostenuto della volatilità. E’ noto come i cittadini americani siano “sensibili” ai richiami della borsa: laddove, come successo nelle ultime settimane, i ribassi hanno il sopravvento, è probabile che scatti una sorta di “percezione di povertà” – o di maggior povertà – che porta a ridurre gli acquisti di beni e servizi). La settimana che sta per arrivare ci dirà qualcosa di più a riguardo dell’inflazione, altro fattore determinante per capire la “profondità” dell’intervento, ormai dato per scontato, a settembre, da parte della FED (- 0,25% o, come da qualche parte si insinua, – 0,50%?). Una decisione che conterrà, con ogni probabilità, anche una valenza psicologica: se il taglio sarà più “potente”, potrebbe essere letto dal mercato anche con una certa preoccupazione, con i più pessimisti che troverebbero nuova forza, leggendo la decisione come la conferma che la situazione è più grave di come qualcuno vorrebbe far credere. Di contro, se si limitasse ad uno 0,25%, ecco che si farebbero sentire le voci di chi ritiene l’intervento insufficiente per allontanare l’arrivo della recessione.
Senza contare un aspetto più “tecnico”, ma non per questo meno importante. Sappiamo che la caduta del mercato giapponese di lunedì è stata dovuta quasi esclusivamente alla chiusura degli “arbitraggi” valutari “costruiti” per guadagnare sulla differenza di rendimento tra asset espressi in valute diverse (più ampio è il gap, più si realizza la possibilità di “portate a casa” rendimenti positivi). Nel momento in cui il “gap” si riduce (come è successo nei giorni scorsi con il rialzo, per quanto minimo, dei tassi giapponesi), ecco che aumenta la probabilità che le posizioni ancora “in piedi” (una percentuale, secondo Goldman Sachs, ancora intorno al 25% rispetto ad inizio settimana) possano essere chiuse, fatto che potrebbe provocare, nuovamente, un accenno di volatilità “abnorme”. Ma qui si rientra nel campo delle ipotesi (o dei punti di vista).
Meglio, molto meglio, stare con i piedi per terra, guardando a quanto realmente succede. Cercando, magari approfittando delle vacanze, di non farlo troppo spesso: il rischio di una bulimia di dati può nuocere alla “doverosa” serenità che deve accompagnare il relax. Perchè se non c’è serenità non c’è relax. E se non c’è relax, non ci sono vacanze.
Quindi buone vacanze diventa il miglior augurio possibile (anche “Finanza e caffè” potrebbe prendersi qualche giorno di vacanza…).
Chiusura di settimana mediamente positivo per i mercati asiatici.
Sulla scia di Wall Street, l’Hang Seng di Hong Kong fa segnare la miglior performance di giornata, con un rialzo, al momento, intorno all’1,25%.
A Tokyo Nikkei a + 0,81%.
Sulla parità Shanghai.
Bene, invece, Seul e Bombay, con Kospi e Sensex entrambi intorno a + 1,2% (il primo però è il valore di chiusura, il secondo di apertura, visto che le contrattazioni sono iniziate da non molto).
Futures piatti a New York, appena negative in Europa.
Petrolio in scia ai dati economici: ecco, quindi, il WTI salire a $ 76,17.
Gas naturale Usa a $ 2,155 (+ 1,13%.
Oro a $ 2.435, – 0,30%, a testimonianza di minor “pericolo” (finanziario) percepito.
Spread a 140,6 bp, in recupero di circa 4 punti.
BTP al 3,70%.
Bund 2,25%.
Treasury 3,97%.
€/$ a 1,0924.
Torna il sereno sopra il bitcoin, tornato sopra i $ 60.000 (61.140 in questi minuti).
Ps: uno dei luoghi più comuni è “le stagioni non sono più quelle di una volta”. Un’espressione, peraltro, che si può adattare a tantissime sfaccettature della ns vita, dal lavoro agli hobbies agli spostamenti allo sport etc.
Nel calcio, per esempio, la figura del raccattapalle (mai definizione, forse, ha origine più popolari, o “popolane”) era un’istituzione. Un po’ come nel tennis: con la differenza che in quest’ultimo sport il “fairplay” è insito, mentre nel calcio, come sappiamo, un po’ meno. Essendo i raccattapalle i primi “tifosi” della squadra di casa, ecco che, negli anni, abbiamo assistito anche ad episodi più di “allontana la palla” piuttosto che di “raccatta la palla”. E quindi, a partire dal Campionato che inizia la settima prossima, la figura “storica” del raccattapalle scompare definitivamente dai campi di calcio (almeno di serie A), appunto per evitare perdite di tempo o cose del genere. Per cui saranno i giocatori a “rifornirsi” del pallone quando dovrà essere rimesso in gioco.